Un appuntamento che in tutto ha propagato un senso di poetico e appassionato coinvolgimento con quel fiume che ai tanti da lontano nulla pare se non un lungo fluire d’acqua.
Eppure l’obiettivo è stato in toto centrato da Bini, docente di geografia, lingua e civiltà francese; ai più presenti in via conclusiva è del tutto sopraggiunto quel sentimentalismo e quell’evocazione pura di una bellezza e gioventù sfumata tra le emozionanti immagini fluviali proiettate, quell’ardore di decantare con le autorevoli voci della letteratura il corso del Po, le sue storie di vita, le sue culture della gente della bassa e lombardi, la sua nebbia, il suo erotismo e la sua voce spersa tra l’argine infinito, la sorgente e le foci che troncano il nome del fiume sino a ridurlo in semplice nome bisillabico quasi “esso avesse paura di gettarsi e sperdersi nelle acque del Mar Adriatico”, come apostrofa Bini accennando ai vecchi nomi Padus, Paus, Pau fino a Po.
“Questo è un grande fiume, un fiume multiforme e meandri-forme, il dio serpente, un serpente morbido capace di morderti ed ucciderti con 141 denti, quattro o cinque o sette bocche, un fiume polipo”, enfatizza e descrive Bini.
E’ un fiume che ha un bacino idrografico di 71.000 chilometri quadrati e 380 paesi lungo di sé, che nasce dalle Alpi e scava anche nell’Appennino trasportando ciottoli, fanghi bassi e inchiostri sublimi.
La gente della bassa come i suoi scrittori, volano basso, sono aspri, corrosivi, parlano di fetaccio, argine, scrivono del Po come di un fiume che nella sua geografia letteraria traspone la sua anima, una letteratura neorealista che racconta di paesi sconfinati, perduti e ignoti quali Zibello, Occhiobello, Pizzighettone Pomponesco, Revere che già nella cacofonia nominale riportano un senso di magia perduta, un entrare tra le curve più remote del fiume Po mentre Zavattini fuoriesce da questa ruvidezza e scrive “arginello”, non è asciutto, è poetico.
“Una prosopopea incredibile nel dire no a Pavese, a Brera e con alcune voci parlare e raccontare quel Po che sento dentro, di tutti quei Po che percepisco e che insieme vivono in me”, ribadisce Bini, “perché il Po non è un luogo ma una persona”, come legge da il Moribondo di Rumiz.
Bini si inserisce in maniera incandescente e personale, con un taglio vivo e professionale tra i segmenti del Po, con tagli ed estratti dei testi alla mano poggiati sul piccolo tavolino di fronte la platea in ascolto, incalza in alcune parole, in alcuni concetti, poi legge e prosegue.
Si avvicina a chiudere con la nebbia che funge da elemento incestuoso tra le sponde del Po, quella nebbia che è tutto e niente e di cui racconta tramite Zavattini.
L’ultimo rimando, anch’esso sentito e inciso su una raccomandazione di libera e spontanea adesione volontaria quale la sua viscerale inclinazione a studiare e parlare di Po, è l’invito all’incontro conclusivo in cui si parlerà del delta del Po con Celati, Palazzoni e gli ultimi visionari.
Monica Baldini
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