Un romanzo che tratta il tema della malattia mentale e del manicomio di Ancona fino alla legge Basaglia n. 180 del 1978: “La chiusura dell’ospedale neuropsichiatrico di Ancona, avvenuta con la Legge 180 del 1978, portò, nel 1981, alla trasformazione della struttura in un centro residenziale di assistenza sociosanitaria e, successivamente, in un centro riabilitativo e sanitario. Fino al 1996 ospitava ancora centoventi pazienti. Dal 2003 singole porzioni dei vecchi padiglioni sono state interessate da interventi di riqualificazione urbana. Oggi, nell’ex manicomio, sono operativi un comando dei carabinieri del Nucleo forestale, un comando dei carabinieri del Nas, la sede dell’Arpam e alcuni poliambulatori. La necessaria bonifica dell’area, specie nei dintorni delle palazzine chiuse e murate, non è mai stata effettuata, nonostante l’incuria e la sporcizia. Il comune di Ancona avrebbe voluto costruire un immobile di edilizia popolare nella parte a nord, ma il progetto si è arenato.”
Un romanzo che ho sentito particolarmente vicino nei dialetti, nei nomi delle vie e delle piazze, nelle tipicità dei cibi, nelle velature di una città che ha colorato la mia infanzia. Anconetana da parte di padre, ho rivissuto in queste pagine una effervescente Ancona che emerge in tutta la sua identità.
Un romanzo che sapientemente porta tra le pieghe delle storie dei malati mentali, fino al cambiamento apportato dalla Legge Basaglia, indaga i loro disturbi, mostra i trattamenti sanitari utilizzati come l’elettroshock ma anche esalta l’umanità del Professore Lazzari e del Dottor Fermenti e poi la figura di Suor Germana e di Arduino, il giardiniere custode della palazzina dai tetti rossi. Pagine che scavano e saltano tra i ricordi fanciulleschi dell’autore degli anni ’80, in cui Moscè gioca a calcio nel campo interno dell’ex-manicomio con Luca, figlio di Arduino e che tornano ai pazienti come Franca, Carlò, Giordano e Adelaide, Adele, Ligabù e ai loro progressi.
Molto interessante è il miglioramento che si evince dei pazienti per l’introduzione di nuovi farmaci e il mutamento delle concezioni nei loro confronti, per l’apertura al mondo esterno, per le uscite al Passetto. Un romanzo in cui Moscè sfodera la grande capacità di toccare un tema così delicato mettendo a fuoco le ombre e le luci di una realtà staccata dalla società e reietta senza eccedere in pietismi o edulcoranti ma traghettando verso l’evoluzione della storia e delle storie in modo puntuale e incisivo. “Dovrebbe essere andata così, più o meno, come ho potuto desumere dal mio viaggio tra le carte e l’immaginazione. Non tornerà più nulla perché il tempo è invincibile. I degenti di allora non si ridesteranno, resteranno polvere dispersa come fuliggine, senza alcun riguardo.”
Anche se di questa polvere noi abbiamo appreso molto, grazie a “Le case dei tetti rossi”, grazie alla dedizione e attenzione che Moscè ha dedicato a quelli che per anni sono stati considerati male da rinchiudere. Un romanzo che consiglio.
Chiuderei proprio con la frase che apre il romanzo: “Democratica è quella società che convive con le imperfezioni, con tutto ciò che fa male”. Cesare Garboli
Monica Baldini
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